Mio padre, Barnaba Fiocchi. La sua guerra




La seconda guerra mondiale (clic per aprire)


Una storia vissuta durante la seconda guerra mondiale

(Memoriale di Barnaba Fiocchi, classe 1918)

 La chiamata alle armi

Sono stato chiamato per fare il militare. Ci pensavo spesso, perché avevo raggiunto l’età di 20 anni e dovevo rispettare l’obbligo di fare i famosi 18 mesi. Erano molti! Allora, era nel mese di aprile dell’anno 1939, mi recai al distretto per sapere in quale corpo dovevo presentarmi. Ero stato assegnato al “3° Reggimento Granatieri di Sardegna”. Il reggimento si trovava a Roma, quindi rimasi molto soddisfatto perché ero vicino a casa e poi perché mi piaceva la città.

I primi giorni non li passai tanto bene perché mi facevano fare la guardia, specialmente di notte. Ti poteva prendere sonno e sarebbe stato un guaio se ti avessero sorpreso a dormire. I granatieri erano un corpo speciale: bisognava sopportare molta disciplina per non subire le punizioni.




Passando il tempo ad abituarmi alla disciplina, mi capitò di fare un corso come radiotelegrafista. Ciò mi permise di passare alla compagnia C.C.R. Lì si era dispensati da tutti i servizi. Quindi, niente più guardie!
Incominciai a stare meglio. Mi permettevo pure, qualche volta, di mettermi in borghese quando potevo avere il permesso giornaliero. Ma poi, nel 1940, scoppiò la guerra contro la Grecia.


Il fronte greco-albanese



Si stava sempre a pensare che, da un giorno all’altro, avrebbero mandato anche noi. Prima di partire per la Grecia ci fu pure un movimento di truppe francesi che si stavano rafforzando lungo il confine. Allora mandarono anche noi sul confine francese. Quando videro i tedeschi avanzare a tutta velocità, i francesi si arresero subito, senza entrare in azione. Noi, si restò ancora un po’ di giorni, poi si rientrò a Roma, dove si ricominciò a parlare del fronte greco. 


C’era bisogno di mandare soldati per rimpiazzare delle postazioni che erano state perdute. Eravamo intorno alla metà di marzo del 1941 quando, un giorno, vedemmo tanta gente che ci veniva a salutare, perché sapeva che era arrivato l’ordine di partire subito per la guerra.
Allora ci preoccupammo un po’ perché sapevamo che erano postazioni molto difficili da raggiungere. In quella zona c’erano stati molti morti. Comunque, dovevamo arrivare al più presto perché i greci stavano avanzando. Allora, quella sera stessa, accompagnati da tanta gente che ci piangeva, prendemmo il treno diretti al porto di Brindisi. Era molto emozionante vedere tutta quella gente accompagnarci, piangendo, al treno.
A Brindisi c’era già la nave pronta per l’imbarco, con quattro navi di scorta e con le rispettive contraeree. Ci fecero indossare a tutti il salvagente, perché erano momenti pericolosi. Difatti, appena partita la nave, ci fu subito allarme e sparatoria. Arrivarono tre bombardieri inglesi. Le batterie contraeree ne abbatterono uno che cadde in mare.
Riprendemmo il viaggio verso il porto di Valona e arrivammo verso mezzanotte. Io avevo mangiato una scatoletta di carne avariata. Allora mi presero forti dolori intestinali che, per fortuna, passarono presto, altrimenti sarebbe finita male.
A Valona si prese subito la strada della montagna, camminando verso la cima dove era stato fatto l’osservatorio. L’osservatorio era un posto molto sicuro ma anche molto scoperto. Arrivammo sul posto. Noi del comando ci siamo piazzati nell’osservatorio mentre gli altri granatieri sono proseguiti verso le prime linee. Non ci fu nulla da fare fino a quando, dal Comando, venne l’ordine di attaccare definitivamente con grande forza.

Io ebbi a rispettare un ordine molto rischioso. Il colonnello mi mandò a sostituire una radiotrasmittente sulla prima linea. La radio in prima linea non era più funzionante perciò se ne portò una per la sostituzione. Io, accompagnato da un ufficiale, incominciai a salire la montagna molto ripida. Arrivati sul posto, feci appena in tempo a fare la consegna, che iniziò il finimondo. Incominciarono a sparare le artiglierie e, per di più, iniziò anche a nevicare forte. Non si vedeva più niente. Incominciai a correre per allontanarmi al più presto. Era una cosa incredibile! Il tenente cominciò a chiamarmi forte perché voleva che l’avessi aspettato. Aveva tanta paura! Ma era cosa logica che avessi paura anch’io in mezzo a tutte quelle bombe che ci cascavano addosso. Da un momento all’altro si poteva essere colpiti perché le bombe erano tante. Comunque ci andò bene, tanto da ritenerci fortunati.
Finalmente si ritornò sul posto dove si era partiti, pensando che il peggio fosse finito. Invece per me doveva ancora arrivare. Mi venne una febbre alta a cui non si poteva far nulla in quanto non c’erano strade e neppure mulattiere per potersi muovere e trovare un posto di riposo. Stavamo in mezzo a quella montagna maledetta piena di ostacoli e reticolati. Bisognava andare avanti per forza. Si doveva solo camminare per raggiungere le strade. Io, con la febbre ancora alta, senza nutrizione, mangiavo solo la neve per poter arrivare a Klisura. Lì vicino si incominciava a vedere qualche stradicciola abbandonata dai greci. Sapendo che i greci stavano in ritirata ed avevano fatto la richiesta di resa, mi stavo facendo coraggio. Lo vedevamo che i greci stavano in forte ritirata. La guerra poteva essere finita ma c’erano ancora molti imboscati che ci sparavano. Quasi raggiunta Klisura, stavamo a riposarci sopra uno scoglio quando arrivò una scarica di mitragliatrice che ci sfiorò la testa. Erano posti dove la guerra era già passata però vi rimaneva gente nascosta per ammazzarti a tradimento. Poco prima di noi erano passati gli Arditi. Tra di loro c’era pure un sergente maggiore di Latina che comandava un battaglione di arditi. Gli avevano sparato da vicino bucandogli l’elmetto. Il proiettile gli era uscito da dietro trapassandogli tutta la testa. Questo è successo proprio nell’ultima ora di guerra.

Arrivammo a Klisura dove erano pronte le infermiere. A noi che eravamo malati ci presero per primi e ci misero a riposo.

L’occupazione di Atene


Feci in tempo a ristabilirmi per fare l’occupazione di Atene. Incominciammo a festeggiare tutti insieme la vittoria. Per di più era proprio nei giorni di Pasqua. Durante i primi giorni di occupazione bisognava stare ancora attenti perché c’era qualche imboscato che sparava rimanendo nascosto. Comunque la situazione cambiò in breve tempo. Ci sembrava di stare in villeggiatura!

Specialmente noi della C.C.R. avevamo facilmente i permessi giornalieri. Si poteva stare fuori tutto il giorno, andare a divertirsi, al cinema, passare il tempo come si voleva, con la speranza che la guerra fosse finita e si potesse ritornare a Roma al più presto. Si sentiva la nostalgia di ritornare a casa.

Invece, dopo circa due anni di occupazione, non c’era ancora nessuno che dicesse niente. Allora venne l’8 settembre e ci fu l’armistizio. Noi eravamo tutti contenti. Ci sembrava sicuro che ci avrebbero riportati in Italia.
Si depositarono le armi. Ne facemmo un mucchio in mezzo alla caserma. Poi ci portarono subito alla stazione per prendere il treno. Era il 9 settembre del 1943. Ci dissero che rientravamo a Roma per fare servizio di ordine pubblico. Partimmo il mattino presto verso le sei. Eravamo liberi, senza nessuno che ci scortasse. Allora tanto più credevamo che fosse vero il ritorno in Italia. Quando il treno si fermava potevamo scendere, senza che nessuno ci controllasse.
Però alcuni ci invitavano a scappare perché sapevano che ci avrebbero portati in Germania.


La deportazione in Germania


Difatti, quando il treno stava per arrivare a Vienna, ci chiusero ermeticamente le porte. Non c’era più nulla da fare: eravamo stati fatti prigionieri dai tedeschi.
Verso mezzanotte arrivammo al campo di smistamento che ospitava milioni di soldati. Era il campo di W., il più grande di tutta la Germania. Io capitai molto bene perché mi fecero restare lì per lavorare la campagna. C’era un’azienda che aveva bestiame e mucche. Il padrone mi aveva visto che ero abbastanza pratico dell’agricoltura. Ci stavo bene perché almeno mangiavo. Erano sempre patate ma ce ne davano in quantità sufficienti. Allora sono rimasto lì per circa un mese, poi mi mandarono in una fabbrica dove si lavorava materiale bellico.

C’era da lavorare dodici ore al giorno, dopo aver fatto sette chilometri a piedi per raggiungere la fabbrica, tutti i giorni. La neve sulla strada si attaccava sotto agli zoccoli di legno. I tedeschi che ci accompagnavano ci maltrattavano. Non volevano che avessimo tolto la neve dagli zoccoli, per vederci soffrire. A vederci camminare in quel modo si facevano delle risate. Non si poteva fare niente. Si doveva solo sopportare. Certe volte, nel vederti trattato come una bestia, ti veniva l’idea di reagire, ma poi sarebbe stato peggio.
Io lavoravo con il tornio. Quando era in funzione, io, al tornio, non gli dovevo fare niente. Per rifarmi un po’ le gambe, quando non si poteva più resistere dalla stanchezza, avrei voluto appoggiarmi ai pezzi che si producevano. Se ne facevano cataste. Ma erano guai se ti trovavano appoggiato. Eravamo trattati in modo disumano: dodici ore al giorno in quelle condizioni, senza mangiare, con una stanchezza da non potersi più muovere.

Con me c’era anche un vero grande amico, uno studente universitario di famiglia perbene. La madre gli mandava sempre qualche pacco con dentro roba alimentare. Lui lo divideva tutto con me. Cercava di fare il meglio che poteva, ma al lavoro pesante non era abituato. Allora, con tutto quello strapazzo, gli venne la febbre. Era una febbre proprio di stanchezza. Non gliela riconoscevano. Gli era negato di andare all’ospedale e doveva lavorare ugualmente. Alla fine, quando era ormai moribondo, cascò in mezzo alla fabbrica e lo portarono al campo. Era andato fuori dei sensi e non capiva più niente. Rimase morto vicino alla branda. A me fece tanta compassione, ma non c’era niente da fare. Io pure speravo sempre di non ammalarmi perché, facilmente, non ti veniva riconosciuta la malattia. Ti facevano lavorare anche con la febbre.
Io, verso i primi dell’anno 1944, ebbi un’infezione simile ad un eczema. Mi misero subito in isolamento perché pensavano che fosse contagioso. Allora cominciai a preoccuparmi. Mi lasciarono stare un paio di giorni, poi mi rimandarono a lavorare, perché la malattia mi andava meglio.

Comunque le cose stavano peggiorando. Era perfido il trattamento che ci riservavano riguardo al mangiare e al lavoro. Non si poteva più resistere in quelle condizioni così disumane. Si stava sempre a pensare a come trovare uno sbocco, ma non c’era niente da fare, si andava sempre peggio.
Allora, un giorno, sapemmo che ci fu un accordo tra Mussolini e Hitler: solo per le domeniche, ci avrebbero fatto lavorare fino a mezzogiorno. Ma neanche questo andò bene. La prima domenica ci dissero che c’era da fare straordinario: bisognava andare alla stazione a scaricare un treno pieno di materiale. La seconda domenica, ugualmente, dovevamo fare straordinario.

Allora, viste tutte queste ingiustizie, mi venne l’idea di sabotare, così sarebbe finito tutto andando alla fucilazione. Mandai dodici pezzi fuori uso. Quando fecero il controllo dei pezzi mi prese un soldato tedesco e mi accompagnò al campo, con il fucile sempre spianato addosso. Mi diceva che, una volta arrivati al campo, mi avrebbero tagliato la testa.
Difatti avevano deciso proprio così. Per combinazione, però, cambiò tutto. Ci fu il cambio del Meister che comandava la fabbrica. Il nuovo Meister, dopo aver saputo che ero in stato di giudizio, telefonò subito al campo dicendo che io ero stato sempre un bravo operaio: tutto ciò che era successo era successo per sbaglio e non per sabotaggio. Allora mi fecero uscire di prigione e mi mandarono di nuovo a lavorare. La semplice punizione che ricevetti fu quella di stare una settimana senza mangiare continuando a lavorare ugualmente.

Wiesbaden, 4 luglio 1944. Avviso del direttore della fabbrica d’armi Mahr & Co. al prigioniero militare italiano Barnaba Fiocchi. 

 Prigioniero Militare Italiano
Fiochi

Sono venuto a conoscenza del fatto che, a causa di una vostra grossa negligenza, avete bruciato, il primo del mese, 12 tubi, rendendoli inutilizzabili.
Stabilisco che, per la prossima settimana, vi venga ritirata l’indennità per i lavori pesanti.
Nel caso che il reato venga a ripetersi, prenderò provvedimenti contro il vostro vile sabotaggio.

Il direttore della fabbrica


La punizione non mi fece niente perché tra compagni facevamo uscire una razione in più. Inoltre, una ragazza polacca che lavorava in cucina, avendo saputo della punizione che mi avevano dato, mi portava sempre un pacchetto, al gabinetto, pieno di roba da mangiare. Lei smontava prima di me e il pacchetto dovevo andare a prenderlo alle sei precise, altrimenti se ne potevano accorgere gli altri. Questa ragazza continuò a portarmi il pacchetto per circa un mese, perché si era innamorata di me. Avrebbe voluto che io l’avessi sposata, ma io a tutto pensavo meno che a fare l’amore. Con tutta quella fame! Si era diventati impotenti.

Comunque eravamo vicini alla fine della prigionia. I tedeschi ci passarono lavoratori civili. Per andare a lavorare si prendeva il tram. Era cambiato tutto un po’ in meglio. Si poteva uscire e restare fuori fino alle nove. Così avevamo un po’ di tempo per rimediare qualche cosa da mangiare. Spesso andavo a rubare un po’ di patate ma bisognava stare molto attenti: c’erano le guardie che passavano a controllare. Più di qualche volta le ho incontrate senza farmi vedere. Si rischiava sempre. Ma la fame era tanta e si andava a rubare anche sotto ai bombardamenti. Quando facevano i bombardamenti a tappeto la campagna veniva massacrata: tutti i frutti delle piante cadevano per terra. Noi si approfittava perché quello era meglio delle patate: la frutta era già pronta da mangiare, mentre le patate bisognava cuocerle.  

I bombardamenti ormai c’erano tutti i giorni, soprattutto di notte. Noi avevamo, lì vicino, un rifugio. Era abbastanza sicuro ma per arrivarci bisognava attraversare la ferrovia. Era pericoloso, in quanto la ferrovia era un obiettivo militare. Comunque si rischiava lo stesso. Di bombardamenti ne ho subìti tanti, anche da vicino. Sono stato fortunato: mi è andata sempre bene.

Si vedeva che eravamo vicini alla fine della prigionia. I tedeschi, ogni tanto, ci abbandonavano. Durante gli ultimi giorni di resistenza stavamo sempre, giorno e notte, dentro ai rifugi e i bombardamenti erano continui. Poi i tedeschi, a noi prigionieri, ci portarono tutti lungo il fiume e ci lasciarono lì, abbandonati: volevano mostrare che potevano fare ancora resistenza.



La liberazione


 Noi ci formammo in gruppi e ci avviammo verso l’Italia. Avevamo la cartina che ci indicava quanti chilometri c’erano da fare. Era diventato uno spettacolo vederci camminare con, appresso, mezzi di fortuna, carretti e carriole per portare la roba. C’erano famiglie russe, per strada, che portavano con sé tanta roba pesante. Eravamo una valanga di gente che camminava sia per strada sia per la campagna.
Allora ci trovammo ad attraversare un bosco quando i caccia americani ci vennero a bombardare, perché ci avevano scambiato per truppe tedesche. Cominciarono a mitragliarci. Io mi salvai perché vidi un grosso mucchio di legna e mi riparai lì, correndo da una parte all’altra. Qualche morto lo fecero, prima di accorgersi che eravamo dei prigionieri.
Riprendemmo il viaggio e camminammo fino a notte. Poi, il giorno dopo, ripartimmo e così andammo avanti per una settimana. Si sapeva quanti chilometri c’erano da fare perché c’era un granatiere che ci dirigeva e faceva dei calcoli sui chilometri e sui giorni che servivano per arrivare in Italia. Ma poi ci raggiunsero i carri armati americani.
Quando arrivarono gli americani, il paese dove stavamo non aveva messo in vista la bandiera bianca. Gli americani spararono così due colpi di cannone. Io, siccome avevo avuto un po’ di febbre la sera prima, ero rimasto a dormire in una cascina, mentre i miei compagni erano già ripartiti. Quando esplose il primo colpo di cannone in mezzo all’orto, la padrona della cascina mi stava portando una tazza di latte caldo. Mi cascò tutta la terra addosso. Così era la seconda volta che potevo morire da quando eravamo liberi, dopo aver subìto tanti bombardamenti a tappeto e tante paure. Scappai per raggiungere i compagni, quando arrivò un’altra cannonata sul fienile.
Corsi per strada, dove la gente stava buttata per terra. Più avanti trovai un bivio. Non sapendo dove andare seguii un gruppo di francesi. Di lì a poco vennero a prenderci gli americani. Ci radunarono tutti in un certo posto, mettendoci in via di rimpatrio.



Il ritorno a casa


Era verso la fine di maggio. Io sono stato uno dei primi ad essere rimpatriato.

Sono arrivato a casa dopo averne passate ancora. L’ultimo episodio: ero arrivato nella zona chiamata “Madonna del Piano”. Arrivava verso di me una camionetta che camminava un po’ in mezzo alla strada e un po’ fuori strada. Allora io pensai che fossero dei marocchini ubriachi. Lì c’era un campo di granturco. Per non farmi vedere mi misi a camminare in mezzo a quel campo. Invece mi videro e mi fecero cenno con le mani di avvicinarmi. Stavo tremando. Quando i marocchini erano ubriachi diventavano dei criminali.
Mi fecero una domanda. Volevano sapere qual era l’officina meccanica più vicina: avevano rotto lo sterzo della camionetta. Allora mi passò tutta la paura.

Arrivai a casa. Era il 20 giugno dell’anno 1945. Tutto il paese si svegliò per venire a vedermi.

Ero partito nell’aprile del 1939 ed ero ritornato nel giugno del 1945. 



 Ero partito nell’aprile del 1939 ed ero ritornato nel giugno del 1945





Un atto di sabotaggio 






Il fronte greco - La deportazione in Germania - Il ritorno a casa












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